Kilimanjaro, di Mike Resnick (2008)

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La “quarta di copertina virtuale” dice, più o meno:

“Resnick crea, in breve tempo, una complessa e impegnata riflessione sulla costruzione di un nuovo mondo che include un'affascinante ridefinizione di utopia”

Mai credere alle quarte di copertina. Mai. Chissà perché, questa volta mi sono fatto abbindolare. Non perché il racconto (un centinaio scarso di pagine) sia illeggibile, o pesante. Anzi, la lettura scorre bene, anzi, quasi troppo bene. Ma andiamo per ordine.

La trama

Siamo nel XXIII secolo. Nelle vicinanze della Terra sono stati costruiti nuovi mondi artificiali. L'Utopia è entrata nella sua dimensione industriale. I nuovi mondi sono alla portata dei popoli, che hanno così la possibilità di creare una propria utopia su misura.

Non per tutti i mondi le cose sono andate come previsto. Il mondo comunista è andato in bancarotta; un mondo musulmano è sfociato in una brutale guerra civile; un mondo cristiano fondamentalista ha aspettato che Dio provvedesse a loro, invece di curare i campi e seminare [...]

Questa è la volta dei Maasai, che hanno così la possibilità di costruire la loro società perfetta, grazie anche alla precedente e fallimentare esperienza fatta da un popolo loro affine (vicende trattate in un libro dello stesso autore).

Il mondo è diviso in una parte urbana (5 grandi città per ognuna delle 5 tribù Maasai) e una parte rurale dominata dalla savana, dove i Maasai che non hanno voluto abbracciare lo stile di vita occidentale sono finalmente liberi di condurre una vita basata sulla pastorizia e ti perpetuare le tradizioni nel nuovo mondo.

A capo di Kilimanjaro (questo il nome del mondo, dall'omonima montagna, la cima più alta dell'Africa) c'è il consiglio degli anziani; la storia è narrata dall'unico storico di professione di questo mondo. Le prime difficoltà (linguistiche, controllo dell'immigrazione su basi razziali) vengono superate o aggirate. La questione femminile viene risolta più o meno elegantemente a più riprese. Il problema della circoncisione rituale si risolve con un compromesso, la poligamia viene compensata con la poliandria. Il mondo si dota di un presidente e di una costituzione. I casi di bracconaggio vengono stroncati alla radice. Infine, per concludere in bellezza, nasce una fiorente industria turistica. Alla faccia dell'utopia.

L'utopia del pensiero unico

I racconti utopistici dovrebbero essere, e molto spesso sono, occasioni per riflettere sul futuro e sulle nostre aspirazioni. In che mondo vorremmo vivere? Questa è la domanda dietro a questi testi. In che modo sappiamo pensare un mondo diverso?

L'altra domanda è quella relativa al contrasto tra modernità e tradizione. Gran parte della storia è studiata in quest'ottica: in che modo la modernità irrompe in stili di vita che ormai hanno fatto il loro tempo e non sono più adeguati.

In questo caso specifico, è presente pure una componente razziale: in che modo i popoli africani si possono riscattare da secoli di sottomissione e povertà.

Ora, questo Mike Resnick è tutto fuorché africano, anche se pare che abbia visitato l'Africa più volte. Sarà, ma l'ottica rimane quella di un americano, pronto con il suo pragmatismo a risolvere i mali del mondo. Non è un caso che il primo presidente di Kilimanjaro sia un sociologo bianco immigrato, che proprio in virtù della sua imparzialità si afferma sui candidati di origine africana troppo legati alle singole tribù. Di nuovo, come nel film Avatar, è sempre un bianco a togliere le castagne dal fuoco e a salvare il mondo, che lasciato in mano a questi selvaggi sarebbe andato a catafascio. Questo Resnick si inserisce quindi nel filone immaginativo del buon selvaggio (oltre ad Avatar si ricorda anche Balla coi lupi, giusto per rimanere nel mainstream hollywoodiano): il bianco, proveniente dal ceto dominante, simpatizza per il negro o l'indiano, salta il fosso, si mette dalla parte dei più deboli e ne assume la leadership. L'idea che i negri o gli indiani siano in grado di fare senza una guida bianca pare al di là della limitata immaginazione di questo scrittore. E in effetti non è questo ciò che detta l'ideologia dominante.

La questione della modernità e della tradizione è affrontata e risolta nel modo più democratico e insipido possibile. L'esempio è quello della circoncisione: può andare, a patto che sia eseguita con le dovute precauzioni sanitarie in un ambiente protetto. Il vecchio sciamano, che ormai ha perso ogni ascendente sulla sua tribù, si converte alla medicina scientifica e diventa un infermiere. Le donne ottengono il diritto alla poliandria. Il nuovo avanza, ma le strutture del dominio e dell'oppressione non vengono messe in questione. Il capitalismo? Figurarsi, è dato come un fatto scontato, l'unico sistema possibile. L'oppressione derivante dalla tecnologia e dalla vita urbana? Nemmeno per idea. Il racconto si conclude con la costruzione di strutture turistiche per i riccastri di altri mondi pronti a venire a visitare la savana artificiale con gli animali clonati.

Insomma, tutto ciò che si riesce a immaginare è un futuro nel capitalismo, con le stesse assurde dinamiche, con un governo, con la polizia, con i turisti, con i parchi a loro dedicati, e con una leggera, quasi impercettibile, sfumatura etnica. I Maasai tornano ai loro costumi tradizionali come attrazione turistica, un po' come le hawaiane con le ghirlande di fiori che attendono all'aeroporto.

Vivendo in una zona turistica, so cosa vuol dire avere un'economia basata sul turismo, e sull'umiliazione costante e continua che ciò comporta (per fare un esempio banale, i campi da golf in una zona afflitta dalla siccità sono uno sputo in faccia al contadino). A questo Mike il problema non passa nemmeno per la testa. Il punto centrale per Mike è sempre e solo uno: il denaro e i famigerati “posti di lavoro” (la panzana del secolo che serve a giustificare ogni cosa).

“Mostrami un Maasai che sia contrario alla ricchezza, che disprezzi il bestiame [usato come valuta] e gli scellini, e sarò d'accordo con te”

“E così prenderemo il denaro dagli ospedali o dagli agricoltori per pagare la tua industria del turismo?”

“La ricchezza non è una grandezza finita, Joshua”, continuò Blumlein. “Te ne puoi rendere conto da solo, basta che osservi una mandria. Ogni volta che nasce un animale, la mandria vale di più, e nessun'altra mandria vale meno per questo. Ciò crea ricchezza.

Forse la ricchezza non è finita, dico io, ma le risorse sì. E se in una mandria gli animali si possono riprodurre in progressione geometrica, il suolo che deve sostenerli resta sempre lo stesso. A questo irrimediabile ottimista americano la questione delle risorse non passa nemmeno per la testa.

Pessimo e insulso racconto. Le sue parti migliori sono quelle che il lettore può trovare nella propria testa pensando a tutte le cazzate scritte sulle pagine. Ne ho tralasciate alcune, che vengono lasciate come esercizio per lo sfortunato lettore.


MelmothX